Il lavoro di adattamento manga dell’opera lovecraftiana portato avanti da Tanabe Gō si è espanso ulteriormente con La maschera di Innsmouth, che traspone l’omonimo capolavoro del Solitario di Providence, uno dei pochi che riuscì a dargli qualche soddisfazione in vita (non dimenticare che H.P. Lovecraft è entrato nel cuore di coloro che lo amano solo molto tempo dopo la sua morte).
Anche per questa pubblicazione il sensei Tanabe non ha abbassato l’asticella, rispettando la verve originaria del racconto ma sapendogli dare personalità e corpo, non perdendosi tuttavia nei canoni del suo Paese onde mantenere l’’occidentalità’ dell’opera.
La maschera di Innsmouth, storie di un villaggio maledetto
Se ami Lovecraft, probabilmente non c’è bisogno di dilungarsi troppo sulla trama di La maschera di Innsmouth, essendo che è tutt’ora considerata una delle opere fondamentali dell’autore americano insieme ad altri racconti, come Il richiamo di Cthulhu o L’orrore di Dunwich. Tuttavia, c’è parimenti la possibilità che sia il tuo primo contatto con le memorie ancestrali di mondi dimenticati che Lovecraft propone nei suoi scritti. Per cui è opportuno presentare le vicende che portano il protagonista a contatto con l’essenza stessa del terrore.
Data la mole dell’opera, essa è divisa in due volumi raccolti in un cofanetto, per un totale di dieci capitoli più un epilogo.
Siamo nel 1927. L’anonimo protagonista (formula tipica di Lovecraft, che spesso e volentieri non dà mai un nome ai propri protagonisti, quasi a voler rappresentare un proprio alter-ego o il lettore stesso), impegnato in una ricerca sulle proprie origini genealogiche, si reca nel New England onde raggiungere la città di Arkham, sede della famigerata Miskatonic University, un luogo depositario di mastodontiche conoscenze sulla storia del mondo.
Giunto alla cittadina di Newburyport, egli apprende che gli manca ancora un po’ di strada prima di arrivare alla propria meta. Trovandosi in eccessive ristrettezze economiche per pagarsi il passaggio su un treno, un bigliettaio lo informa sull’esistenza di un autobus, che tuttavia gli sconsiglia di prendere in quanto è l’unico tra i mezzi pubblici locali che passa per Innsmouth, un villaggio di pescatori un tempo fiorente ma ora ridotto in stato di abbandono e popolato da strani individui dall’aspetto grottesco.
Il ragazzo, scoraggiato solo a metà dal racconto dell’interlocutore, decide ugualmente di tentare la sorte confrontandosi con il passaggio attraverso quel posto scansato come la peste da ogni anima.
Dopo aver avuto un primo assaggio dell’orrida estetica degli indigeni per tramite del conducente dell’autobus, egli raggiunge finalmente il borgo, il quale conferma ogni diceria da egli udita a riguardo, compresa la presenza, a largo della costa, di un’inquietante accozzaglia di formazioni rocciose affioranti dalle onde, nota come Scoglio del Diavolo, sulla quale aleggiano altrettanto inquietanti voci.
Lì, confrontandosi con un vecchio clochard, apprende degli eventi disturbanti che si sono consumati in loco, e di come Innsmouth sia ora dominata da un misterioso culto pagano dagli intenti piuttosto sinistri.
Ogni uscita, un trionfo
Ancora una volta Tanabe Gō ha saputo dare ottima prova di sé, riuscendo a rendere perfettamente giustizia a La maschera di Innsmouth, opera che, a ragion veduta, non ha limiti geografici, come del resto le altre storie di Lovecraft. Si tratta infatti del sesto adattamento del genere del mangaka, che ha iniziato questa sua opus magna nel 2016, quando ha dato alle stampe la propria versione a fumetti de Il colore venuto dallo spazio, altro memorabile scritto lovecraftiano.
Il bianco e nero tipico dell’arte fumettistica giapponese ben si presta a rendere l’oscurità dei fatti narrati oltre al grigiore dell’ambientazione.
L’estetica degli abitatori del profondo così come quella dei loro monili, centrali nel racconto originale, è anch’essa ispirata e allo stesso tempo rispettosa dei dettami dell’autore, dando prova di uno studio profondo dell’opera da parte del sensei Tanabe. Anche i personaggi non fanno una grinza, con il capitano Obed Marsh che è tuttavia dotato di un fascino che lo scritto originale non trasmette.
I paesaggi ricalcano anch’essi fedelmente le descrizioni fornite da Lovecraft, con l’aiuto, è opportuno ribadirlo, del bianco e nero, che ne accresce non solo la tenebrosità, ma anche l’inconoscibilità, confondendo le linee in alcuni momenti, soprattutto per quanto riguarda le vignette che ritraggono lo Scoglio del Diavolo, centro nevralgico delle domande di chi legge in ogni momento della fruizione del volume.
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