L’uomo del Tanganyka è una storia breve, densa e a suo modo complessa. La paternità è di Attilio Micheluzzi, un ‘fumettista tardivo‘ (ha infatti debuttato nel mondo della nona arte all’età di quarant’anni) che nei suoi vent’anni di attività si è saputo distinguere come maestro del cosiddetto stile ‘linea chiara‘, ereditato direttamente dalla scuola fumettistica franco-belga. Egli non è nuovo tra le recensioni di iCrewPlay Anime, infatti abbiamo parlato anche di un’altra sua opera (ne trovi la recensione qui).
La pubblicazione originale dell’opera risale al 1978, quando comparve come diciottesimo volume della collana Un uomo un’avventura di CEPIM (denominazione assunta dall’attuale Sergio Bonelli Editore dal 1969 al 1988).
Di genere squisitamente avventuroso, l’opera ci trasporta all’alba del Primo conflitto mondiale, ma l’Europa già flagellata dai combattimenti lascia il posto ad un’ambientazione africana, precisamente nell’attuale Tanzania, all’epoca ancora nota come Tanganyka (o Tanganica, in grafia italiana) e facente parte del Secondo Reich tedesco con il nome ufficiale di Deutsch-Ostafrika (Africa Orientale tedesca), unità territoriale che comprendeva anche i territori degli attuali Burundi e Ruanda.
Protagonista è Ian Fermanagh, ingegnere minerario americano di origine irlandese ed aviatore provetto che dovrà affrontare una missione di ricognizione in un cielo mai battuto prima da alcun aeroplano.
“L’ultima guerra tra gentiluomini“
Il 1914 volge al termine. Mentre in Europa la guerra infuria da circa sei mesi, nell’Africa spartita tra le potenze del Vecchio continente i combattimenti sono limitati a poche azioni di logoramento.
Sull’isola di Zanzibar, possedimento britannico dirimpetto ai domini tedeschi dell’Africa Orientale, la marina di Sua Maestà sta subendo numerose perdite a causa del Königsberg, micidiale incrociatore tedesco nascosto tra le nebbie e la fitta vegetazione del delta del fiume Rufiji.
Davanti a questa lenta ma continua decimazione, l’unico rimedio efficace parrebbe rappresentato da una ricognizione aerea. C’è solo un problema: non ci sono aeroplani in Africa.
Proprio per sopperire a questa mancanza entra in scena Ian Fermanagh, il quale giunge in Africa con il suo idrovolante Curtiss opportunamente smontato, imballato ed immagazzinato nella stiva della nave Hyacintus.
Uno spettacolo, questo, insolito tanto per i colonizzatori quanto per gli indigeni, i quali stigmatizzano la macchina volante come uno strumento diabolico, mentre strani eventi fanno da preambolo al primo decollo. A quanto pare qualcuno sull’isola ha interesse nel sabotare la missione.
La qualità conta di più della quantità
Il maesto Micheluzzi sembra essersi attenuto a tale principio per l’interezza del proprio lavoro, il quale, pur essendo piuttosto breve (circa cinquanta facciate) è ricco di avvenimenti e oltremodo scorrevole, con dialoghi e pura azione dosati con eccellente equilibrio.
La vicenda è tratta con la massima aderenza alla Storia, ed è resa ancor più verosimile dalla scelta di scrivere i dialoghi tra i personaggi tedeschi nella loro lingua, con l’opportuno espediente delle didascalie esplicative onde tradurli, le quali, pur rallentando la lettura, non finiscono per comprometterla.
I due personaggi che tengono le redini dell’intero svolgersi degli eventi sono entrambi carismatici e di effetto, oltreché egregiamente approfonditi, laddove tutta un’altra serie di comprimari risulta piuttosto circostanziale e funzionale al solo mandare avanti la narrazione.
Un vero peccato, in questo senso, che manchi un personaggio indigeno che spicchi sugli altri. I locali infatti sono rappresentati tramite immagini piuttosto stereotipiche: un zanzibarese ladruncolo di strada, un arabo avido del denaro dell’uomo bianco e un indiano ingenuo, oltre ad un askari (soldato nativo) irragionevolmente superstizioso.
Va ricordato, tuttavia, che Micheluzzi scrive e disegna L’uomo del Tanganyka negli anni settanta del secolo scorso, periodo in cui il processo di decolonizzazione mondiale era ancora nel suo pieno corso (le ultime due colonie europee in Africa, ossia Angola e Mozambico, si erano affrancate dai loro dominatori portoghesi solo nel 1975). Si può dunque assumere che l’autore fosse ancora vittima di preconcetti e pregiudizi perdurati durante quel momento storico, senza tuttavia tacciarlo di razzismo, essendo che questo presuppone un’intenzionale atteggiamento di prevaricazione su una base puramente etnico-culturale.
Anche a livello grafico l’opera è in tutto e per tutto figlia della sua epoca, compreso il dare voce ai pensieri dei personaggi (e tante volte dell’autore stesso) tramite le didascalie. Pratica che si va sempre più affievolendo ai giorni nostri. Il tratto è quello tipico delle avventure bonelliane sebbene spogliato di quel bianco e nero che lo contraddistingue in favore di colorazioni tendenzialmente fredde che riescono a rendere l’idea dell’umidità delle zone in cui gli eventi della storia si dipanano.
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