Siamo alla fine del ventesimo secolo, e il mondo intero NON è sconvolto da esplosioni atomiche, ma poco c’è mancato. Nel 1983 la Guerra Fredda è in pieno svolgimento e il mondo è sul ciglio del burrone, con il Blocco Sovietico e il Patto Atlantico che si guardano in cagnesco a ridosso della Cortina di Ferro. In un simile clima di odio continuo, isolamento e propaganda contro il nemico, quello che ci vorrebbe è un eroe. Non uno ragionevole e pacifista, ma uno che sappia dispensare saggezza e cazzotti in egual misura, uno che possa prendere il male e fargli una schiena così se necessario. Un emblema di forza e coraggio, un samurai con la spada nell’animo.
LA STORIA DELL’OPERA
Così nasce Hokuto no Ken, più noto come Ken il Guerriero, leggendario manga ad opera di Tetsuo Hara e Buronson, che narra il viaggio – molto più simile a un pellegrinaggio – di Kenshiro, sessantaquattresimo erede della Divina Scuola di Hokuto, una leggendaria scuola di arti marziali che insegna il controllo e la distruzione dell’avversario attraverso i punti di pressione del corpo umano (meglio noti come tsubo).
Da principio, lo scopo di Kenshiro è trovare Yulia, la sua amata, rapita da Shin, erede della Sacra Scuola di Nanto, ma dopo il tragico destino della sua amata il suo scopo diverrà quello di riscattare il mondo dall’abisso in cui è caduto.
Il mondo di Kenshiro è infatti un futuro post-apocalittico, dove le bande di teppisti e i signori della guerra autonominati infuriano in un panorama di desolazione desertica: le esplosioni nucleari hanno spazzato via la vegetazione e le foreste, prosciugato gli oceani e dato il via alla nascita di nuovi esseri umani, enormi e grotteschi. Solo Ken può, come discendente della scuola di Hokuto, riportare l’equilibrio e la pace. Ma l’impresa è tutt’altro che facile.
PERCHE’ GUARDARE KENSHIRO?
Quello di Kenshiro è, tutt’altro che un semplice proseguire di scontri sanguinari e teste che esplodono. Il cammino dell’erede dell’Hokuto Shinken è un continuo calvario in cui si viene messi alla prova non soltanto nel fisico, ma anche nella psiche, arrivando a mettere in discussione il perenne e necessario desiderio interiore di pace del protagonista: Ken vive sulla sua pelle (letteralmente) il marchio dell’essere un predestinato, un vero e proprio “supereroe con superproblemi” che affronta la responsabilità non solo di essere l’unico in grado di fermare il Male definitivamente, ma di attirare su di sé in modo drammaticamente costante quello stesso Male.
Kenshiro è, nell’immaginario post-apocalittico di Hara e Buronson, un messia, un messaggero di speranza per le generazioni che lo circondano, un castigo divino per i teppisti e i criminali che non necessita di altro che del proprio tocco per fare Giustizia con la ‘g’ maiuscola. Un samurai senza spada, per l’appunto, il cui peggior avversario, prima ancora dei suo fratelli e compagni di arti marziali, anch’essi personaggi di un carisma e una profondità sconfinati per quello che dovrebbe essere un “semplice” shonen, è l’eterna e infruttuosa ricerca di una felicità personale.
Perché Kenshiro è umano: ama, sorride, piange, soffre, si infuria, ed è quindi ben lontano dall’immagine di una divinità impersonale, perché è pervaso da quell’empatia sempre presente verso i più deboli.
Ed è nel Sacrificio che marchia il suo cammino, come quello di molti dei suoi leggendari avversari/rivali (Raoul, Shin, Rei) che si raggiunge uno dei punti più alti e poetici della narrazione per immagini della storia giapponese. Per capire cosa intendo, basta pensare alla vicenda di Shu della Stella della Benevolenza, maestro della Sacra Scuola di Nanto.
Quando ho letto l’epiteto “messia”, mi sono alzato in piedi, in un’ovazione solitaria. Ken il Guerriero è l’Odissea. Definitivo.
Bellissimo, o Ken sempre nel mio cuore ❤