Nato a Venezia ma trasferitosi a Roma da giovanissimo, Paolo Eleuteri Serpieri coltiva un talento che lo farà diventare un artista a tutto tondo. Dopo il liceo artistico, studia architettura ma la sua passione è la pittura (tra i suoi maestri ha avuto Renato Guttuso). Il disegnatore approda al fumetto negli anni ’70, dopo un iniziale scetticismo, che viene superato ammirando il lavoro di grandi artisti europei e sudamericani. Nel 1982 Paolo Eleuteri Serpieri vince il Premio Yellow Kid al Salone Internazionale dei Comics, mentre nel 1985 arriva il grande successo con la fantascienza erotica di Morbus Gravis, in cui esordisce Druuna, il suo personaggio più celebre.
Abbiamo avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata con il disegnatore, che ringraziamo per la grande disponibilità. Nella prima parte ci concentriamo principalmente sulla sua carriera e sui suoi lavori attuali, nella seconda allarghiamo il discorso agli autori italiani, alle potenzialità espressive e sociali del fumetto e del genere western. Si parte subito con buone notizie legate al suo personaggio più noto.
Intervista a Paolo Eleuteri Serpieri – La carriera
A che cosa stai lavorando adesso?
Sto facendo il decimo volume di Druuna.
La seconda domanda era appunto sul ritorno del tuo personaggio più famoso: quando uscirà il volume? Essendo il decimo, chiuderà la serie, come da programma?
Sono alle prime pagine, arriverò a 62-64, quindi è presto per dire quando sarà pubblicato. Non so se la serie finirà con il decimo, non è detto, potrei proseguire. Le opere sono autoconclusive anche se c’è una storia che va avanti, preferisco che il discorso sia per certi versi completo.
Altri progetti su cui sei all’opera?
Partendo da una sorta di sceneggiatura, sto realizzando alcune immagini divertenti per una serie di tarocchi che pubblicherà il mio editore, Scarabeo.
Dai anche il colore a queste carte?
Si, certo, ho sempre dato il colore alle mie cose, faccio un lavoro completo. In passato mi era capitato di vedere colori dati da altri ai miei fumetti e non sono rimasto soddisfatto. Preferisco pensarci io, con la mia sensibilità.
Facciamo un passo indietro: come sei passato da Guttuso ai fumetti?
Un bel passo indietro, andiamo al Giurassico… Volevo fare il pittore, ho studiato e quasi finito Architettura, mi interessava ma ho capito che non sarebbe stato il mio lavoro. Diversi ambiti mi piacevano, come la composizione architettonica e la progettazione, ma già allora mi facevano notare che io ero un disegnatore, un pittore.
Per mantenermi facevo prospettive per gli architetti, ma avevo la passione per la pittura, realizzavo quadri, mostre e mi muovevo in quel contesto, benché fosse molto difficile. Ho iniziato a insegnare al liceo artistico e negli istituti d’arte statali.
Mi è sempre interessato raccontare, scrivevo ed ero appassionato del West e degli indiani d’America. A metà anni ’70 mi hanno proposto di lavorare nei fumetti, ma ero un po’ prevenuto. Ho cambiato idea quando un editore mi ha messo davanti alcuni grandissimi autori e disegnatori, argentini, spagnoli, francesi, gli italiani Toppi e Battaglia. E ho iniziato a realizzare qualche storia.
Tanto western su “Lanciostory”, di Eura Editoriale, l’enciclopedia “Storia del Far West” per Larousse (le collaborazioni con la Francia si fanno sempre più importanti), nei primi anni ’80 la collaborazione con la rivista “Orient Express”, nata da poco. E il successo internazionale con Druuna.
Nel 1985 ho inventato questo personaggio femminile, di genere più fantasy che fantascienza: le mie immagini tecnologiche sono fatiscenti, non ho mai rappresentato macchine terrificanti. Volevo invece raccontare il mistero, l’incubo, il surreale. Il personaggio doveva essere una donna attuale, bella secondo i miei canoni.
Come hai scelto i nomi Morbus Gravis e Druuna?
Ho pensato a “Il male” ma non mi piaceva, oltretutto i primi editori erano francesi, “le mal” non funzionava. Allora ho pensato di tradurre ”morbo crudele” in latino. Per Druuna, un nome nordico, ho pensato alla Luna e alla duna. Mi piaceva il contrasto fra questa donna di oggi, mediterranea, un nome dal suono antico, celtico, e il contesto di un futuro fatiscente.
Per diversi anni la serie di Druuna ti ha impegnato molto, ma hai trovato tempo anche per altre opere.
Ho fatto qualche “trasgressione”, come Saria – Le tre chiavi: una storia in una Venezia surreale, sempre con una figura femminile e alcuni personaggi horror. La sceneggiatura era di Jean Dufaux, simpatico oltre che bravo e creativo.
Io ho disegnato il primo libro, poi dovevo tornare a Druuna. Mi era anche stato proposto di fare Caravaggio, ero elettrizzato, ma Dufaux e gli editori francesi lo ritenevano commercialmente poco appetibile.
E l’insegnamento? Come si conciliava la docenza con l’attività da disegnatore?
Ho insegnato discipline pittoriche per trent’anni, poi, nel 1996, ho lasciato, Ero un po’ stanchino, come diceva Forrest Gump. Non per l’insegnamento, che mi piaceva. Avevo un buon rapporto con i ragazzi, che mi chiedevano del fumetto, io rispondevo ma non l’ho mai inserito nelle lezioni, è una cosa completamente diversa dalla pittura e ho cercato di non mischiare le cose.
Ho smesso a causa di alcuni cambiamenti, in particolare legati alla burocrazia. Avevo un’alternativa appagante e mi sono dedicato a quella.
Parliamo di Tex. Un totem quasi immutabile del fumetto italiano, con un pubblico molto legato alla tradizione. Eppure nella realizzazione di “L’eroe e la leggenda” hai goduto di ampia libertà.
Me lo proponeva da anni Sergio Bonelli. Io ho tergiversato, poi ho gli proposto una storia che avevo in testa, pur sapendo che non l’avrebbe accettata. Infatti disse “Non se parla nemmeno”.
Gli piacevano i miei disegni e il mio modo di lavorare sulla storie western, tornò alla carica, proponendomi qualche modifica, io rifiutai anche perché ero impegnato con altri lavori. Qualche tempo dopo Bonelli purtroppo ci ha lasciato, in seguito l’editrice è tornata alla carica e abbiamo trovato l’accordo.
Ho potuto fare il Tex che avevo nella mia testa. Non avrei accettato una sceneggiatura legata al personaggio canonico. Ho fatto una storia breve, di una quarantina di pagine.
E com’è andata quest’avventura?
Molto bene dal punto di vista commerciale, ma qualche lettore legato al Tex classico ha criticato la mia versione del personaggio.
Coerentemente con l’ambientazione temporale l’ho fatto più giovane del solito, tra i 25 e i 30 anni, e soprattutto con i capelli lunghi: a metà del 1800 gli uomini che vivevano vicino alla frontiera non avevano certo tempo di andare a tagliare i capelli. Inoltre per gli indiani della pianure i capelli sono un elemento fondamentale, un simbolo di dignità e coraggio, da cui il rito dello scalpo. Non avrei potuto fare Tex con i capelli tagliati corti e perfetti, e per lo stesso motivo c’è quel finale con lo scalpo, per togliere dignità al capo indiano e far desistere gli altri guerrieri.
C’è anche un anziano Kit Carson che nei primi del 1900 racconta la vicenda del giovane Tex, non sappiamo se vera o no. Non si tratta del Kit Carson storico, morto nel 1865, su cui bisognerebbe distinguere il mito dalla realtà, un discorso presente anche nella mia storia di Tex.
Faresti un’altra storia di Tex o magari di Kit Carson?
Sono sempre stato un appassionato del West, mi piacerebbe disegnarlo ancora, ma a quest’età devo scegliere con cura i lavori, non so se riuscirei a fare qualcosa di simile.
C’è un’altra tua opera in particolare in cui hai dovuto distinguere il mito dalla storia?
Nei primi anni ’80 ho lavorato alla Storia del West per Larousse, disegnando in tre episodi la battaglia di Little Big Horn: Custer è diventato un mito, non più una realtà oggettiva. Narrando si preferisce il mito perché è più divertente da disegnare, la storia qualche volta è un po’ fredda.
Tornando al discorso dei capelli, si dice che Custer se li fosse tagliati prima della battaglia, ma mi sembra poco probabile, oltretutto gli indiani lo chiamavano proprio “Capelli lunghi”. Magari l’aveva fatto per la calvizie o perché non gli venisse tolto lo scalpo.
Pare che Custer non sia stato riconosciuto tra i cadaveri da Lakota e Cheyenne. La stessa battaglia di Little Big Horn è misteriosa perché sappiamo solo la versione degli indiani: i soldati statunitensi sono morti tutti.
Grazie alla disponibilità di Paolo Eleuteri Serpieri, l’intervista ha toccato molti argomenti, in modo approfondito. Si chiude qui la prima parte, come detto incentrata sui lavori dell’autore di Druuna, mentre nella seconda metà dell’intervista allargheremo il punto di vista, in particolare riflettendo sulle potenzialità del genere western, molto amato dal disegnatore, e facendo considerazioni sui fumetti che vanno al di là della carriera dell’interessato, con un breve scambio di battute con Zerocalcare!