Ira, accidia, gola, lussuria, avarizia, invidia, superbia: questi sono i sette vizi capitali. A volte sono tratti caratteriali appena accennati, in altri casi rappresentano parti imprescindibili della personalità, la cosa certa è che la loro rappresentazione è una costante della produzione letteraria o fumettistica.
In particolare, oggi voglio soffermarmi sulla rappresentazione che ne da Hiromu Arakawa nel manga Fullmetal Alchemist – e nell’anime Fullmetal Alchemist: Brotherhood – perchè a mio parere l’autrice è riuscita non solo a catturare l’essenza di ogni vizio, ma anche a diversificarla, rendendola meno scontata e tradizionale (e perchè è il mio manga preferito in assoluto, ma questo è solo un dettaglio).
Da Lust a Sloth: i sette vizi capitali rappresentati in Fullmetal Alchemist
Il motivo per cui gli Homunculs si chiamano come i sette vizi capitali è perchè ne sono la vera e propria incarnazione. Il Padre – antagonista principale – infatti, percependo queste emozioni come fonte di debolezza ha preferito privarsene, dare loro forma antropomorfa utilizzando pietre filosofare, e mandarle in giro per Amestris a portare avanti i suoi piani di grandezza.
Envy è l’invidia, il desiderio di avere per sé qualcosa che appartiene ad altri. Mutaforma, è uno degli opponenti più temibili, nonché la causa di molte delle sofferenze narrate nella vicenda. Eppure, alla fine, quando non è altro che uno sgorbietto verde (“verde d’invidia“) in fin di vita, quando la sua forma colossale è solo un ricordo e l’unica cosa che gli rimane da fare è strisciare, si scopre che ciò che agognava, ciò che invidiava con tutto il suo cuore erano proprio gli esseri umani.
Lust e Gluttony sono due tipi diversi di fame che trovano spazio nei sette vizi capitali: Lust è la lussuria, il desiderio sessuale, la ricerca dell’appagamento dei sensi. E visto che da secoli la creatura tentatrice per antonomasia è la donna – anche se si potrebbe girare la faccenda, tenendo in considerazione la possibile mancanza di controllo dell’altra parte – la sua incarnazione è femminile, accattivante, dalle forme prosperose e i lunghi capelli neri. È una manipolatrice che agisce nell’ombra.
La fame di Gluttony è quella che si accanisce sul cibo: la gola. L’Homunculus è tarchiato, con un ventre molto pronunciato – che cela fauci spaventose e una dimensione parallela, in cui è possibile avere un accenno del vero appetito della creatura – un’andatura barcollante e le parole “Posso mangiarlo?” sempre sulla punta della lingua. A differenza degli altri personaggi, il suo carattere pare a tratti infantile, quasi ingenuo, come sottolineato dal suo profondo attaccamento a Lust.
Sloth è forse il personaggio che mi convince di meno, probabilmente anche perchè la sua caratterizzazione e il suo ruolo sono minori rispetto agli altri – è l’Homunculus che compare per ultimo. È la personificazione dell’accidia, l’odio per qualunque azione o attività, la costante lamentela, l’anelare per un ritorno all’immobilità – che però non ha nulla a che vedere con la pigrizia e il dolce far niente. Eppure, è lui a compiere uno dei compiti più tediosi tra quelli assegnati dal Padre ai suoi scagnozzi; e in combattimento, la sua arma principale è la velocità. Forse è una mia impressione, ma mi sembrano tratti in contrasto con ciò che dovrebbe rappresentare.
Finalmente siamo arrivati agli ultimi due vizi capitali, quelli che rappresentano un twist di trama (e quindi se hai letto fin qui, confido che tu abbia bene a mente il mio avvertimento iniziale): Wrath e Pride, ira e superbia. Sebbene incanali l’ira, la rabbia più cieca e assoluta del Padre, King Bradley dimostra raramente il minimo cenno di emozione, anzi. Niente urla, strepitii o voce grossa; la sua rabbia è strisciante, gelida e letale.
Per concludere, trovo che la rappresentazione di Hiromu Arakawa dei sette vizi capitali sia una chiave di lettura interessante, non di completo stacco con l’immaginario collettivo, ma nemmeno scontata (senza contare che pensando agli Homunculus è più facile riuscire a elencare tutti e sette i vizi, altrimenti sarebbe come con i nani di Biancaneve: alla fine uno manca sempre all’appello).