Il nuovo titolo Bao di Jeff Lemire e Andrea Sorrentino recensito in anteprima dal Vostro Affezionatissimo
Davanti alla finestra di camera mia si erge una casa.
Sono anni che non ci abita nessuno, e onestamente nemmeno io so più bene il perché. So solo che sta lì, in attesa, quasi che la sua piatta esistenza di immobile rifiutato, malriuscito, morto, non sia altro che una trappola per una preda incauta, che magari passa di lì per portare a spasso il cane, o va a prendere i nipotini all’asilo.
C’è stato un tempo, lo so per certo, ne ho un ricordo ormai sciupato, in cui quella casa non era che un semplice disegno, una congettura, una cianografia in fieri, relegata al mondo del possibile. Ma ora c’è, e il panorama alle sue spalle è cambiato, evolvendosi, e dissipando con sempre più stolida forza – quella forza che viene, in simili circostanze, dalla semplice presenza – l’idea stessa non solo di quello che c’è dietro, ma che effettivamente ci sia qualcosa dietro.
Credo che l’idea di Male insito negli edifici si riduca a questo: cosa si nasconde in essi e dietro di essi, i vuoti che lasciano nell’immaginario – del singolo e collettivo – e il modo in cui andiamo a riempirli di proiezioni che, in fondo, non sono altro che farina del nostro sacco. Semi che germinano segreti nel nostro animo più nascosto.
Ognuno di noi ha il suo personale Palazzo del Male.
Per Gideon Falls, è il Fienile Nero.
Gideon Falls, edito in Italia da BAO Publishing, è il frutto della terza collaborazione dello sceneggiatore canadese Jeff Lemire (Superboy, Old Man Logan, i romanzi grafici Essex County e The Underwater Welder) e del disegnatore italiano Andrea Sorrentino (God of War, I, Vampire, Uncanny X-Men, Green Arrow, Secret Empire), ma è il primo progetto creator-owned del duo, che nella gestazione della loro creatura hanno potuto godere della perizia nei colori di Dave Stewart (già collaboratore di Mike Mignola in Hellboy e veterano della Marvel).
La storia, che intreccia strettamente il noir psicologico europeo con il poliziesco della scuola americana, calato con dovizia nella dimensione dell’horror soprannaturale, vede narrate in parallelo le vicende di Norton, ragazzo mentalmente disturbato, ossessionato dalla ricerca di detriti e rifiuti in una città anonima dai tratti vagamente londinesi, e di padre Wilfred, insegnante di seminario che ha smarrito la fede, spedito come parroco nella silenziosa cittadina di Gideon Falls, ritratto della classica comunità del Mid West americano. Le loro vicende ruotano entrambe attorno al misterioso Fienile Nero, un edificio fantasma che, per coloro che sono riusciti a vederlo, è l’incarnazione del Male assoluto, e che corrompe e porta alla follia tutti coloro abbastanza sfortunati da entrarvi. Nella lotta sempre più serrata attraverso un panorama di perversioni e perdite, di società (non così) segrete e oscuri presagi di complotto, le due vicende arrivano a incurvarsi potentemente l’una verso l’altra, sotto una pressione magistralmente orchestrata che tuttavia non rompe il filo delle narrazioni, ma dà loro modo di tendere verso un asintoto comune senza mai toccarsi davvero, sfociando in un finale che è sia promessa della chiusura di un capitolo oscuro che presagio di un ancor più macabro inizio.
Perché il Male non è stato che scalfito
La narrazione serrata e onirica di Lemire trova pieno appoggio nelle inchiostrature graffiate di Sorrentino, che plasma i ritmi della vicenda attraverso prospettive distorte e deliranti, nonché un uso frequente dello splash a doppia pagina, che ben lungi dal dare uno stop completo all’incalzare delle vicende, fa la parte del respiro strappato ai flutti per un caso fortuito durante l’annegamento. L’uso costante, ma mai scontato, del framing (foto)grafico a contorno rosso, che mischia la potenza visiva di uno zoom alla spietatezza di un mirino laser, fornisce al tutto un tocco aggiuntivo di inquietudine, che spicca ancor più grazie alla sapiente orchestrazione del colore di Stewart, maestro nella stesura di campiture fredde uniformi sui toni del giallo, del grigio e del marrone. Anche nei momenti più lenti, come i dialoghi, la concitazione del momento è data dall’utilizzo sapiente dei frame segmentati, in un misto tra bullet time alla Matrix e parcellizzazione dell’istante in uno stile che non può non ricordare le migliori produzioni del primo Frank Miller (Ronin, ma anche le magnifiche tavole per Daredevil in storie canoniche, quali Roulette). La sensazione sempre più marcata di immersione nella psiche trova un alleato potente nella verticalizzazione delle vignette e negli ampi ventagli scaleni di immagini sovrapposte, le cui spirali spingono non già la lettura a contrarsi, quanto il lettore stesso a farsi trascinare in una prospettiva che alterna piani isometrici non paralleli ad arditi esperimenti di frammentazione del primo piano, fino ad apici di rappresentazione che sfiorano i limiti del non euclideo. Emblematica in tal senso è la scena dello specchio in casa della dottoressa Xu, la terapeuta di Norris, che raggiunge vertici quasi lovecraftiani di contrapposizione di punti e linee, geometria solida e astrazione metafisica, sovrapposizione e distruzione.
Con Sorrentino la lettura non muta, muta il lettore stesso
Complice l’intelaiatura imprevedibile della narrazione, si finisce per percepire il proprio Io filtrato, a sgocciolare via dal mondo fino all’ultimo battito di ciglia, ritrovandosi a dover guardare altrove per convincersi di non essere divenuto un tutt’uno con la pagina.
Potente scorre in ogni tavola l’influenza di Lynch, di Gilliam, di Moebius (il fumettista, ma anche il matematico), cementata in una sinfonia che alterna la periferia americana alla città, la campagna alla suburra, dove i due palcoscenici si sdoppiano ulteriormente mostrando la tremenda realtà della lotta tra un Bene sempre più disperato e sfiduciato e un Male orribilmente identico nel suo brulicare anche a miglia di distanza. Come ratti di razze diverse dal morso ugualmente letale, come ragni e scorpioni, entrambi aracnidi eppure così differenti, anche i ritratti della provincia e della città, del Bene e del Male (non necessariamente in quest’ordine di accoppiamento) si sovrappongono e lacerano e rinascono continuamente in quel valzer autodistruttivo che è la narrazione di Lemire. Su tutto, imperante, torreggia il Fienile Nero, il Vacuo dell’Anima, visibile nella sua invisibilità solo per il rosso che ne circonda la sagoma.
Come il Vuoto dentro l’uomo che svetta solo quanto più il Male vi aderisce attorno.
Assediandolo, logorandolo, riempiendolo e infine consumandolo totalmente.
Gideon Falls è il tentativo, a mio avviso pienamente riuscito, di creare un’epopea del Male, contro il Male, dove i paladini, ben lungi dall’essere senza macchia e senza paura, fanno della loro intima fragilità lo scudo e del loro essere fallibili la lancia atta a trafiggere al cuore la tenebra, a costo di arrivare, per farlo, a trafiggere se stessi e l’idea che si ha di sé, per rinascerne purificati.
Migliori.
Tutto sta nell’avere il coraggio di affrontare la soglia del Fienile.
La soglia su se stessi.
E le porte si stanno lentamente aprendo.
Recensioni del genere, secondo me, contribuiscono a nobilitare un’arte che da tanti è ancora considerata minore (o per minori).