Come annunciato in occasione dell’uscita precedente, le 3 storie di Officina Infernale, Spugna e Jacopo Starace erano previste sul numero 39 del Color Fest, ma, per un disguido tipografico, vengono proposte sul volume appena uscito. Poco male: la testata propone storie autoconclusive, slegate dalla continuity, spesso fini a se stesse e sopra le righe: è proprio il caso di questo Estreme visioni, che si caratterizza per un grande discostamento dai canoni di Dylan Dog, come nei precedenti numeri dal titolo analogo (32, Altre visioni, 35, Nuove Visioni).
Uno sconvolgimento tale da far intervenire in prefazione lo stesso creatore de personaggio, Tiziano Sclavi:
“Le tre storie qui raccolte, secondo me graficamente splendide, sono non solo sopra le righe, ma proprio fuori. E gli autori […] sembrano non amare molto il mio Dylan (o forse si, ma in un modo tutto loro). […] Il Color è una testata anche e soprattutto sperimentale, aperta a tutti i contributi autoriali”.
Con copertina di Ambra Garlaschelli, il Dylan Dog Color Fest ha 96 pagine ed è in vendita dal 9 febbraio a € 5,90.
Il prossimo Color Fest sarà in edicola dal 10 maggio e conterrà un’unica storia, L’orrore delle armi, a firma di Gabriella Contu e Giorgio Pontrelli.
Dylan Dog Color Fest 40: le tre storie
Il primo racconto è La colazione dei campioni, a firma di Officina Infernale. A colpire immediatamente, oltre allo stile grafico. è un Dylan Dog invecchiato male a causa dei suoi vizi (alcol, sigarette, pastiglie), ricorda un po’ il Marv di Sin City (sia quello cartaceo sia quello interpretato da Mickey Rourke): il Dylan perennemente trentenne, magro e bello ha lasciato il posto a una figura enorme, malconcia, decadente, su cui si vedono i segni di 20 anni di carriera. Anche il comportamento non è quello dell’indagatore dell’incubo, ma sembra più adatto a un villain o a un investigatore hard boiled.
L’occhio è catturato dallo stile da fumetto underground, con elementi punk (le scritte ritagliate, in particolare “Made in UK” dice sostanzialmente “Sex Pistols”), collage di vignette monocromatiche.
Se il quadro non fosse sufficientemente destabilizzante, troviamo un sostituto di Groucho: questa versione di Dylan è assistita dalla prorompente e linguacciuta Daliah. Anche Madame Trelkovski è cambiata: è un fantasma. La più grande medium d’Inghilterra gli racconta una storia che inizia a fine anni ’60, in una Swinging London dove proliferano le sette pagane. Tra i tanti ciarlatani c’era qualcuno con reali abilità, tra questi il mago elettrico, che ha evocato il Cubo, una potente creatura malefica che infesta la zona di Forkhill e ora dev’essere fermato.
In ossequio al romanzo di Kurt Vonnegut da cui prende il titolo, il racconto contesta – en passant – anche alcuni elementi della società odierna: in particolare, denigra il centro commerciale come luogo di falso appagamento, dove le persone vengono “svuotate”. Il finale definisce il Cubo in termini lovecraftiani e svela ciò che la Trelkovski non ha voluto dire a Dylan Dog. E le sorprese non sono ancora finite.
La storia di Spugna, La casa dello splatter, ci porta ancora di più nel fumetto underground rispetto al primo racconto, con un taglio più lisergico: facce stralunate, colori acidi, creature abnormi. L’indagatore dell’incubo si risveglia in un sotterraneo molto sporco, dove viene assalito da strani esseri. Dopo il combattimento e la fuga, il contatto con un inquietante barattolo di “Dog man food” gli causa una mostruosa trasformazione: una rivisitazione grottesca dell’assunzione di spinaci da parte di Braccio di Ferro. L’unico elemento “classico” della storia è l’intervento di Groucho, ma anche in questo caso i colpi di scena sono dietro l’angolo.
Il volume si chiude con Teatro dei demoni, di Jacopo Starace: vediamo l’Old Boy su un palcoscenico che riproduce la sua casa di Craven Road. Le persone con cui interagisce sembrano aver colto ciò che a lui sfugge, e la particolarità è, per una volta, più in platea che sul palco.
Nonostante il titolo sia rivelatorio, anche nel terzo racconto non mancano imprevisti ribaltamenti. Delle tre storie, questa è quella graficamente più tradizionale, almeno a livello di tratto. Va però sottolineato il fascino della staticità riferita a due elementi: le griglie delle pagine e le inquadrature delle vignette, che ci propongono, appunto, in ogni tavola, due rappresentazioni frontali del palco.
In conclusione, il Dylan Dog Color Fest raccoglie tre prove autoriali coraggiose e interessanti. I 3 artisti, che hanno realizzato sceneggiatura, disegno e colori della loro storia, portano l’indagatore dell’incubo lontano dai suoi canoni, grafici e non solo. Il gradimento del lettore dipende molto dal suo rapporto con la sperimentazione, che – va ricordato – caratterizza questa testata, e da quanto accetta che il personaggio venga stravolto (il Dylan del primo racconto ha davvero poco in comune con l’originale).