Devilman nasce come manga scritto e disegnato da Gō Nagai tra il 1972 e il 1973, guadagnando subito grande popolarità e una serie animata, purtroppo fortemente edulcorata per rivolgersi a un pubblico di giovanissimi. Solo alla fine degli anni ’80 furono realizzati due OAV che trasponevano più fedelmente il manga, ma il progetto si arenò per problemi di budget e soprattutto per la morte del character designer Kazuo Komatsubara. Bisogna aspettare fino al 2018 per avere finalmente un adattamento fedele dell’intera opera, il qui recensito Devilman Crybaby, una produzione Netflix.
“Diventerò un demone per salvare l’umanità dai demoni!”
L’idea alla base di Devilman (e di conseguenza di tutti i suoi adattamenti, compreso Crybaby) è semplice ma di grande impatto. Nagai immagina un mondo in cui i demoni non solo esistono, ma erano la specie dominante sulla Terra prima dell’avvento degli uomini. Lungi dall’essere tutti estinti, riposano in attesa del momento opportuno per tornare all’attacco e impadronirsi nuovamente del pianeta. Il topos dei vecchi dominatori della Terra in procinto di ritornare è tipico di molta produzione nagaiana: basti pensare ai Micenei della saga di Mazinger, all’impero dei dinosauri di Getter Robot o agli Yamatai di Jeeg.
Ma in Devilman non è ad un robot che viene affidata la salvezza dell’umanità. Akira Fudo, il protagonista, viene convinto dal suo amico Ryo Asuka a partecipare a un violento e perverso rituale in una discoteca per fondersi con Amon, uno dei demoni più potenti che ci siano: il frutto di questa unione, Devilman appunto, ha i poteri per combattere gli altri mostri e proteggere l’umanità.
Nel corso della storia, Akira deve scontrarsi con nemici di tutti i tipi, dalla vecchia amante di Amon, la fiera Siren, al viscido Jinmen; ma l’invasione dei demoni è inevitabile e proprio durante il suo svolgimento si scoprirà come non sempre gli esseri umani sono migliori dei mostri che combattono, anzi…
Yuasa e lo stile divisivo di Devilman Crybaby
Alla guida dell’adattamento del 2018 viene posto Masaaki Yuasa, regista già noto per anime del calibro di Kemonozume, Kaiba, The Tatami Galaxy, Ping Pong: The Animation e persino un episodio di Adventure Time, nonché fondatore dello Studio SARU, che si è occupato di realizzare proprio Devilman Crybaby.
Yuasa ha puntato a un compromesso tra libertà creativa e fedeltà all’originale, mantenendo invariato il cuore dell’opera di Nagai e lo svolgimento degli eventi, ma aggiungendoci del suo e aggiornando Devilman fin dove poteva. Basti pensare alla maggior attenzione alla psicologia di personaggi come Miki e Ryo, che nel manga erano descritti quasi esclusivamente in funzione del rapporto col protagonista, oppure alla presenza massiccia dei social media, o ancora al completo restyling dei teppisti, che per Nagai riflettevano una sottocultura giovanile degli anni ’60 e ’70 mentre qui praticano il rap e il free-style, ossia le sottoculture più in voga del momento.
Decisioni che a molti spettatori non sono andate giù ma che invece rappresentano proprio uno dei grandi pregi di Crybaby, ossia la capacità di non tradire le fondamenta della storia pur adattandosi ai nuovi tempi.
Ciò che ha creato maggiori discussioni, però, è stata l’estetica della nuova serie. Yuasa ha uno stile molto particolare, che a un occhio meno attento potrebbe sembrare poco curato e abbozzato, ma che sarebbe più corretto etichettare come minimalista: non si ricerca il disegno dettagliato ma il dinamismo, l’espressione cinetica portata ai massimi livelli, in una girandola di deformazioni ed esagerazioni fisiche e cromatiche che rendono ancora più spaventoso il racconto. E questo lo si può apprezzare soprattutto nei combattimenti e nelle scene più concitate, un autentico orgasmo per gli occhi.
E a proposito di sesso, Yuasa punta molto anche su questo aspetto che nel manga originale veniva appena accennato. Sia chiaro, Nagai è uno dei mangaka non-hentai che più indugia nelle proprie opere in contenuti sessuali, che si tatti dell'”innocente” nudità con cui Kekko Kamen combatte il preside Unghia-del-piede-di-Satana o degli stupri che costellano ogni capitolo di Violence Jack o quasi. Ma in Devilman la sessualità era più sottintesa che esplicitata, mentre Yuasa punta a farla irrompere prepotentemente sullo schermo, soprattutto per quanto riguarda i comportamenti dei demoni, più disinibiti e liberi rispetto agli umani. Lo stesso confronto tra Devilman e Siren sullo schermo si carica di una tensione erotica che manca nel fumetto.
Il sottile confine tra uomo e demonio
Il nucleo centrale di Devilman Crybaby, però, è tutta farina del sacco di Nagai. Da questo punto di vista, anzi, Devilman può essere visto come la summa dei principali temi affrontati dal mangaka nel corso della sua lunga carriera: ambiguità tra bene e male, sfiducia nei confronti degli adulti e al contempo fiducia verso i più giovani, interesse per la religione e il folklore occidentale, sublimazione della violenza e dell’orrido.
Akira accetta di fondersi con un demone per salvare l’umanità, ma a un certo punto appare evidente che l’umanità non merita di essere salvata. Gli uomini finiscono per comportarsi come i demoni, se non addirittura peggio, e questo porta a chiedersi chi sia il loro vero nemico, se i mostri o loro stessi. Anzi, porta a chiedersi se il loro annientamento sia qualcosa di cui dolersi o persino una giusta punizione.
E Yuasa non fa altro che rendere ancora più evidente questo aspetto, indugiando ancor più che Nagai sul clima di intolleranza, di violenza e di distruzione che gli uomini instaurano durante la guerra contro i demoni, creando una spirale crescente e disturbante che sfocia in un finale indimenticabile, l’ultimo di una serie di pugni nello stomaco dello spettatore.
In questo mondo distruttivo, anzi auto-distruttivo, gli unici personaggi che offrono esempi davvero positivi sono quelli che fino a un attimo prima potevano sembrare gli antagonisti, come Miko, altra umana fusasi a un demone, oppure i suddetti teppisti, che rivelano in extremis un cuore d’oro. E ovviamente Miki, che rappresenta l’immagine di un’umanità sicuramente minoritaria ma pura e immacolata, libera dai pregiudizi, per la quale vale la pena lottare.
Tutto perfetto?
Purtroppo no. Devilman Crybaby risolve alcuni “problemi” del manga di Nagai ma non riesce a eliminarne altri, e in più ne crea di nuovi.
Il ritmo della storia, complice il numero ridotto di episodi (solo 10, meno di quelli solitamente assegnati a una serie televisiva nipponica), soffre di una eccessiva accelerata verso il finale, con la guerra tra umani e demoni raccontata in maniera un po’ più estesa rispetto a quanto avviene nel manga, ma comunque con una fastidiosa sensazione di fretta. Di contro, nella prima parte non sono pochi i tempi morti e le divagazioni che si potevano tranquillamente tagliare.
Ne risente anche la caratterizzazione dei personaggi: se l’evoluzione di Akira è gestita forse anche meglio che nel manga, lasciando emergere più spesso l’umanità latente sotto la corazza di Devilman, quella di Ryo è sacrificata al punto da rendere frettoloso e poco incisivo il colpo di scena che riguarda la sua vera identità.
Ed è un vero peccato, perché si perde parte della bellezza del rapporto ambiguo tra Ryo e Akira, che costituiva uno degli elementi più interessanti del manga e che qui è ampiamente sacrificato in favore dell’esplorazione di altri personaggi, come Miko, che non riescono a essere altrettanto incisivi. Discorso opposto per Miki, a cui viene data una personalità più forte e indipendente rispetto al manga del ’72.
Ma nonostante queste piccole sbavature, Devilman Crybaby rappresenta tuttora la migliore opera audiovisiva tratta da Devilman ed è molto difficile che in futuro qualcuno possa fare meglio.