Nel 2001, la Capcom fece uscire, su Game Boy Advance, il primo videogioco della serie Ace Attorney, creata da Shuu Takumi. A tutto il 2018, la serie dedicata a Naruhodo Ryuichi, un giovane avvocato (fuori dal Giappone divenne Phoenix Wright), ha venduto 6,7 milioni di unità.
Quello che sembra il più normale incipit di un articolo ci svela, in realtà, due considerazioni che torneranno utili, più avanti, nella recensione: l’anime Ace Attorney è tratto da un videogame; il gioco riscosse un grande successo.
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La trama
Naruhodo Ryuichi è un giovane avvocato difensore che, a causa di imprevedibili eventi, si vede lanciato in un’aula di tribunale nel pieno del suo apprendistato. Nonostante la giovane età e l’inesperienza, però, il suo nome diventa sempre più conosciuto, rispettato e temuto dagli avvocati dell’accusa. Per sua sfortuna (umana) e per sua fortuna (professionale), molto spesso si ritrova ad affrontare casi che lo coinvolgono in prima persona o che coinvolgono persone a lui vicine.
Nel panorama degli anime, non vengono in mente molti titoli se si parla di ambientazioni e tematiche giudiziarie. In tutta onestà, chi vi scrive non saprebbe menzionarne un altro. Pertanto, un primo punto a favore di Ace Attorney è sicuramente quello di trattare un ambiente pressochè inedito per la japanimation.
Come già detto, il nostro avvocato si ritrova spesso a lavorare a casi che lo coinvolgono personalmente. Certo, non è la prima volta che la “sfiga” si accanisce con un protagonista X di una serie Y. Detective Conan è un valido esempio di come il crimine, nella più diffusa accezione dell’omicidio, paia seguire, inesorabilmente, i protagonisti dell’anime tanto da far credere che, per le vittime, il posto più sicuro sia il più lontano possibile da Conan, Goro o Ran. Una volta accettata questa premessa, probabilmente doverosa per non rendere i personaggi principali dei semplici spettatori della vita altrui ma schierati in prima linea nello svolgimento della trama, i compromessi che lo spettatore deve accettare non sono comunque finiti. A fronte della garanzia di un ritmo narrativo movimentato, chi guarda Ace Attorney dovrà passare sopra ad una serie di distorsioni ontologiche.
Tanto per cominciare, non ci si deve aspettare che il sistema giudiziario rappresentato nell’anime sia aderente a quello reale. Testimoni, imputati, prove e qualunque altro elemento tipico del genere spuntano fuori come funghi e non sempre appaiono con modalità accettabili nella realtà. Certo, la realtà e la sua burocrazia non avrebbero potuto garantire il giusto ritmo alla narrazione ma, soprattutto in alcuni casi, determinati avvenimenti risultano troppo poco credibili e sembrano pretendere che lo spettatore se li beva supinamente. Non è raro vedere, nello svolgersi di una causa, avvocati, testimoni ed imputati scambiarsi le poltrone come nel vecchio gioco della sedia in cui, al fermarsi della musica, pagava pegno chi restava in piedi. In altri casi, un giudice ansioso di chiudere il caso, si accinge a battere il martello a suon di sentenza mettendo alle strette il nostro eroe, chiamato a trovare una soluzione estrema prima che il martello colpisca la sua base. Questa “soluzione estrema” prevede, a volte, l’intervento di un deus ex-machina, una vera e propria entità che intervinene a supporto di Ryuichi per capovolgere la situazione. Già, perché il nostro amico avvocato ha un’assistente speciale, Mayoi, capace di invocare gli spiriti dei defunti (Ti piace vincere facile?).
L’obiezione che in molti potrebbero fare è che da un anime non si può pretendere aderenza alla realtà. Vero. Tuttavia, l’obiezione avrebbe senso se gli imputati fossero dei goblin, gli avvocati elfi e il giudice divinità e il reato fosse quello di aver rubato l’anello. Il fatto è che, invece, ogni delitto è estremamente umano, compiuto da umani, con modalità umane e dettato dalle più intime pulsioni umane. Allo stesso modo, in seguito, il delitto sarà giudicato seguendo le procedure umane (con le particolarità a cui si è già accennato). Pertanto, vedere intervenire il misticismo solo in brevi tratti della storia, lo fa sembrare, più che altro, un modo facile e frettoloso di sciogliere un nodo che si è reso troppo ingarbugliato.
Ma veniamo all’importanza dell’incipit di questa recensione. Il videogioco da cui è stato tratto questo anime (2016, diretto da Ayumu Watanabe ed, attualmente, nel corso della seconda stagione) presenta le stesse ed identiche caratteristiche che hanno dimostrato, nei numeri (e nel fatturato), di non compromettere il successo della serie. A questo punto, quindi, sorge un grande dilemma: può la stessa storia essere giudicata in modi diversi a seconda del medium attraverso il quale viene raccontata?
La posizione dello spettatore
Chi vi scrive ha giocato tutta la serie canonica di Ace Attorney ed a qualche spin-off. Le sensazioni espresse in questa recensione, circa la poca credibilità di alcuni elementi narrativi fondamentali, sono sensazioni provate anche al tempo videoludico. Tuttavia, per qualche ragione, nel videogioco sembravano pesare di meno. Probabilmente, l’effetto è dovuto proprio alla posizione di spettatore che, nel caso del videogioco, è uno spettatore attivo, chiamato al ragionamento ed all’azione e, nel caso dell’anime, è uno spettatore passivo, semplice osservatore della scena, libero da impegni e, di conseguenza, con la mente più libera per il “giudizio”.
Affinità e differenze tra anime e videogame
Oltre alla trama che, rispetto alla versione ludica, presenta solo delle piccole differenze dovute all’adattamento, le affinità fra le due versioni sono numerose. Dal punto di vista estetico, manca la “pixelosità” (candido ufficialmente il termine “pixeloso” ad essere il nuovo “petaloso”) del gioco ma lo stile dei disegni resta identico.
Conclusioni
Una recensione, un voto, difficilmente possono assumere un valore assoluto e condivisibile da tutti. La gradevolezza o non gradevolezza di un anime non è dovuta solo a fattori oggettivi ma anche a tutta una serie di fattori soggettivi che rendono ottima, per alcuni, una produzione che, per altri, ha poco da dire. In questo caso, nello specifico, può influire molto, nel giudizio, l’aver giocato alla serie uscita per le console portatitli. Chi lo ha fatto, potrà accettare con più facilità, perchè già visti, i numerosi compromessi a cui chiama la trama. Nell’ottica di una recensione imparziale, però, ci si mette nei panni anche di chi non ha avuto una precedente esperienza videoludica e, per costoro, accettare i compromessi di cui sopra potrebbe rivelarsi meno facile. Inoltre, per quanto i parallelismi con il videogame fossero d’obbligo, nel giudizio finale è più giusto valutare l’opera in sè e non in modo complementare ad una produzione precedente, su un altro medium. D’altronde, chi si approccia alla visione di Ace Attorney potrebbe non sapere nemmeno dell’esistenza di una versione videoludica e l’anime stesso non ne fa alcun riferimento.