Fin dal massiccio arrivo di audiovisivi americani in Italia durante il secondo dopoguerra, molte generazioni di italiani sono rimaste affascinate da una festa spesso menzionata e mostrata, quella di Halloween. Oggi, trascorsi quasi ottant’anni da quel periodo, quest’antica tradizione d’origine anglosassone è entrata a far parte anche della nostra cultura, tanto è vero che ormai anche la vigilia di Ognissanti viene spesso osservata come giorno festivo nelle scuole.
Nel corso del tempo, tanti narratori italiani si sono lasciati ispirare dalle tinte spettrali e orrorifiche della festa di Halloween nel creare le loro storie, ed oggi parliamo proprio di un’opera che ha dietro di sé un’ispirazione del genere. Si tratta di Burning Eyes, un breve fumetto di circa quaranta pagine nato dalle matite del giovane autore nostrano Salvatore Cuccia la cui gestazione abbiamo già trattato circa due settimane fa in questo articolo. L’edizione dell’albo è a cura di Upper Comics.
Burning Eyes, una trama ‘di rito’
La storia si apre in medias res, con il protagonista che si risveglia immemore di sé stesso e con una sorta di scafandro calato sul capo. Come se ciò non bastasse, neanche il mondo che lo circonda gli è familiare. Si ritrova infatti circondato da una folla di creature mostruose, che gli indicano quasi per caso la persona che può risolvere il suo problema.
Si tratta di una potente strega, Rowanne, che oltre a restituirgli i ricordi sulla propria identità, lo mette a parte anche di un altro fatto: egli è una lanterna, vale a dire quello che la tanto grottesca quanto affascinante fattucchiera descrive sommariamente come ‘un guardiano del mondo oscuro‘ colpito dalla maledizione di Jack-o’-Lantern (ebbene sì, si riferisce proprio a quello stesso malandrino irlandese alla cui leggenda è attribuita l’origine della festa celtica di Samhain, poi rinominata Halloween in tempi di cristianizzazione).
Questa rivelazione lo pone davanti ad un arduo compito: la sua fidanzata Amy è in pericolo, e tocca a lui salvarla.
La storia prosegue in maniera abbastanza semplice e lineare per poi giungere ad un cliffhanger che lascia presagire ad un seguito delle vicende del protagonista.
Un bianco e nero che ben si presta alle atmosfere
Burning Eyes è un opera totalmente priva di colore, fatta eccezione per qualche sfumatura azzurrognola presente nelle prime vignette e nei momenti topici della storia. Una scelta che giova molto alla resa della confusione nella mente del protagonista.
Il tratto è nel suo complesso abbastanza originale. A livello grafico i personaggi più riusciti sono senza dubbio quelli non umani, in particolare la sopracitata Rowanne, Elphias, il saggio Antico, e Belial, l’antagonista principale.
Le loro controparti umane, rappresentate dal protagonista e dalla fidanzata Amy, sono per contro piuttosto anonime, quasi stereotipiche, tanto nell’aspetto quanto nella caratterizzazione: l’uno un adulto poco cresciuto che si ritrova in un mondo per certi versi più grande di lui e con il quale è chiamato a confrontarsi, l’altra una ragazza antifemminista al massimo, che si conforma totalmente allo stampo della damigella in pericolo.
Le parole sono importanti
Il più grande problema di Burning Eyes tuttavia non è una scarsa caratterizzazione dei personaggi o una trama troppo semplice, bensì un aspetto che a volte capita che venga sottovalutato in ambito fumettistico, dove, si sa, sono le immagini a far giustamente da padrone: i dialoghi.
Essi non risultano solo stereotipici tanto quanto chi li mette in atto, ma addirittura filmici, tanto è vero che non sarebbe scorretto affermare che ogni singolo personaggio dell’opera parli un idioma che in ambito traduttologico viene chiamato scherzosamente (ma non troppo) ‘doppiaggese‘.
Si tratta di una sorta di italiano estremamente poco mobile, quasi rituale, modellato sulla lingua inglese e costantemente applicato non solo agli audiovisivi adattati, ma anche, per ragioni puramente conformistiche o di comodo, ad opere cartacee, che non richiederebbero dunque l’artifizio della sincronia labiale per venire fruite agevolmente in un’altra lingua.
Tale eccessivo e conti fatti immotivato attaccamento linguistico di Burning Eyes all’idioma che quasi tutto il mondo parla (ebbene sì, esistono ancora posti del mondo dove l’inglese non è molto conosciuto) è dimostrato ulteriormente dal titolo stesso dell’opera. Certo, ‘Occhi brucianti‘ non attira molto l’attenzione come nome, ma sarebbe stato così poco d’effetto chiamarla ‘Occhi di fuoco‘ oppure, ancora più scenico ma forse fuori contesto, ‘Occhi di bragia‘? (Nessuno si dimentica di te, Sommo Dante).